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Banca, banco e altro

Alcuni giorni fa, nella sua consueta rubrica su NIN (l'articolo è ancora leggibile online qui), Ivan Klajn ha parlato dell'influenza del greco sulle lingue europee, nominando anche le parole italiane banca e banco. Il linguista ha scritto di come queste due parole (tra l'altro di origine franca) si siano diffuse in Europa, mentre il ben più antico trapeza sia rimasto confinato alla Grecia.

Ma perché, nelle altre lingue, sono state accettati i lemmi italiani? Il motivo è che proprio in Italia si sono affermate le attività creditizie. Durante l'Alto Medioevo, prestare denaro era considerato peccaminoso; a partire dal XIII secolo, però, la sempre maggiore diffusione del commercio determinò la nascita degli istituti di credito. Tra i primi e più bravi in questo campo vi furono i toscani – e in particolare i fiorentini – che portarono le attività finanziarie anche negli altri paesi. Così le parole banca e banco iniziarono a viaggiare e a essere accettate negli altri sistemi linguistici.

È interessante notare il fatto che l'influenza linguistica dell'italiano non era limitata al campo economico, ma si estendeva ad altri settori: fino al XVII secolo si riscontra la diffusione di italianismi nei linguaggi marinaresco, diplomatico, militare, musicale, artistico e altri; con il declino del prestigio culturale italiano, saranno altre le lingue a imporre i propri lemmi a livello internazionale (francese, spagnolo, tedesco e inglese su tutte).

Per tornare a banca e banco, che differenza c'è tra le due parole?

Quella femminile ha sempre designato gli istituti di credito (Banca d'Italia), mantenendo tale genere anche in serbo; viene utilizzata – con estensione del proprio significato di luogo in cui si custodisce qualcosa – anche in altre espressioni che non riguardano il denaro, come ad esempio banca dati (insieme di dati, informazioni), banca del seme (luogo dove si custodisce lo sperma per la fecondazione assistita) e banca del tempo (accordo tra due o più persone che intendono aiutarsi reciprocamente).

La parola maschile, invece, indica non solo istituti di credito (tuttora esiste il Banco di Napoli), ma – soprattutto – specifici tipi di mobili, in particolare tavoli: ad esempio il banco del mercato (spesso sostituito dalla variante femminile bancarella), il banco scolastico (il tavolo a cui siedono gli studenti) e il banco del negozio (il mobile che separa lo spazio per il cliente da quello per il negoziante). In senso metaforico, il termine viene usato anche in espressioni come tenere banco (essere al centro dell'attenzione), sedere al banco degli imputati (essere accusato di qualcosa) e vendere sotto banco (vendere in modo illegale). Banco, infine, indica anche un accumulo/gruppo particolarmente fitto, come un banco di nebbia e un banco di pesci.

La stretta relazione e l'origine comune che hanno le due parole è ben visibile anche nell'espressione fare bancarotta (o andare in bancarotta), anche questa entrata in varie lingue, tra cui il serbo: l'origine si ritrova nel fatto che, durante il Medioevo, i banchi dei mercanti che non potevano pagare i propri debiti venivano rotti durante una cerimonia pubblica.

Per finire, un paio di derivati: sapete che differenza c'è tra bancario e banchiere? Il bancario è la persona che lavora in banca, mentre il banchiere è il proprietario.

Se siete dunque d'accordo con Bertold Brecht, per il quale “il vero ladro non è colui che rapina una banca, ma chi la fonda”, prendetevela con i banchieri e non con i poveri bancari.

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Ma l'italiano è facile da imparare?

Molti serbi - soprattutto quelli che non lo studiano - pensano che l'italiano sia una lingua semplice da apprendere; di solito esso viene messo a confronto con il tedesco, esempio principe degli idiomi difficili (o, almeno, a me è capitato più di una volta di sentire questo paragone).

Ma è davvero così? L'italiano è facile da imparare?

In realtà, la domanda non è ben posta: i linguisti ritengono che non si possano distinguere le lingue "facili" da quelle "difficili"; ogni lingua ha, infatti, aspetti più o meno complessi da padroneggiare, e il processo che porta all'acquisizione di un secondo idioma dipende da vari fattori.

Tra questi ultimi, innanzitutto, vi è la lingua madre dell'apprendente (per noi italiani è molto più facile imparare lo spagnolo - lingua neolatina come la nostra - rispetto al cinese); quali altri idiomi parla lo studente (per rimanere allo spagnolo, esso interferisce positivamente - ma anche negativamente - sull'apprendimento dell'italiano); le motivazioni allo studio (chi studia una lingua per amore verso il Paese in cui essa si parla, ha generalmente più probabilità di imparare meglio); l'esposizione a essa (va da sé che una lingua si impara con più facilità se si ha la possibilità di praticarla); e la lista potrebbe proseguire.

Dunque non si può parlare di lingue facili e lingue difficili; è corretto, invece, individuare all'interno di ogni idioma quelle che sono le strutture più facilmente assimilabili per uno studente che parte da una determinata lingua madre.

Vediamo dunque alcune fra le strutture linguistiche dell'italiano che sono (meglio: potrebbero essere) più semplici e più ostiche per i serbi.

Tra gli aspetti più semplici:

- analoga struttura sintattica: sia l'italiano sia il serbo sono lingue con una struttura SVO (soggetto + verbo + oggetto): noi diciamo "Io mangio la pizza", i serbi dicono "Ja jedem picu". Sembra una banalità, ma non lo è: il giapponese, ad esempio, ha una struttura SOV ("Watashi wa piza o tabemasu"), in cui - cioè - il verbo va alla fine della frase. Abituarsi a una nuova struttura sintattica è una delle cose più complesse per chi apprende una nuova lingua, e i serbi questo non lo devono fare;

- assenza dei casi e del terzo genere del sostantivo: in serbo le parole vengono declinate attraverso sette casi, a seconda della funzione grammaticale che svolgono nella frase; il sostantivo, inoltre, oltre al maschile e al femminile prevede il genere neutro. L'assenza di queste strutture in italiano diminuisce ovviamente le forme da apprendere, semplificando il compito degli studenti serbi (anche se alcuni di essi, c'è da dire, all'inizio sono un po' confusi dalla mancata presenza del neutro);

- forti analogie nella formazione delle strutture verbali: in entrambe le lingue esistono tempi composti, che si formano attraverso l'accostamento di un verbo ausiliare e di un participio. Questa analogia rende più semplice apprendere le forme - tra gli altri - del passato prossimo, tempo fondamentale per poter raggiungere un livello di competenza comunicativa che consenta di sostenere una semplice conversazione;

- la forma impersonale del verbo "piacere": sia in italiano ("Mi piace il gelato") sia in serbo ("Sviđa mi se sladoled"), il verbo "piacere" viene coniugato in modo impersonale; è una forma che risulta ostica per coloro che parlano lingue in cui tale verbo ha forma transitiva, come in inglese ("I like ice cream").

Tra gli aspetti più complessi:

- presenza dell'articolo: in serbo l'articolo non esiste; in italiano ne esistono tre tipi (determinativo, indeterminativo, "partitivo"), che generano svariate forme. Anche per gli apprendenti di livello avanzato, a volte, è difficile capire se l'articolo va usato e come. Le regole di base vengono spesso contraddette da eccezioni e ulteriori specificazioni: una regola che sentirete ripetere da molti docenti è che davanti ai nomi di città l'articolo non va usato ("Bologna è bella"); ma se una specificazione accompagna il nome della città, allora ci vuole l'articolo determinativo ("La Bologna degli anni Trenta era bella"); in casi particolari, poi, l'articolo dev'essere indeterminativo ("Una Bologna così bella non la vedevo da tempo": in questo caso è la costruzione marcata a esigere questa forma dell'articolo). Immaginate la confusione dei poveri studenti! È ovvio che le regole, in questi casi, debbano essere presentate gradualmente;

- uso delle preposizioni: è un problema analogo a quello dell'articolo. Abbiamo detto che l'assenza dei casi rende l'italiano più semplice per i serbi; d'altro canto, però, nella nostra lingua le funzioni grammaticali delle parole vengono spesso esplicitate dalle preposizioni. Stabilire delle regole - anche in questo caso - è molto difficile: perché si può dire sia "Vado in posta" sia "Vado alla posta"? Non c'è una risposta; è così e basta. Oltre a dare indicazioni (precisando che vanno usate con elasticità) e cercare di esporre l'apprendente il più possibile alla lingua reale, la soluzione migliore è stabilire delle priorità per livello di apprendimento: per i principianti non conta tanto la forma quanto la possibilità che il messaggio passi (meglio usare una preposizione sbagliata che fare scena muta); per gli apprendenti di livello avanzato il lavoro sulla forma diventa fondamentale (sperando però che certi errori non siano stati così introiettati da risultare impossibile rimuoverli);

- uso di "avere" come ausiliare: abbiamo già detto che i tempi composti si costruiscono in maniera analoga nelle due lingue; in serbo, però, viene utilizzato solo il verbo "essere" come ausiliare, il che rende - almeno all'inizio - problematico abituarsi all'uso di "avere". Con il quale, peraltro, il participio non va modificato per genere e numero (mentre in serbo lo si fa sempre);

- presenza del congiuntivo: questo modo verbale non esiste in serbo; le sue forme, inoltre, sono piuttosto difficili; le norme che ne regolano l'utilizzo, poi, sono varie e - a volte - fumose: si dice "Cerco persone che parlano italiano" o "Cerco persone che parlino italiano"? (Si usano entrambe le forme). Perfino gli italiani faticano a usarlo (Fantozzi docet!), ma esistono anche modi per "aggirarlo" ("Credo che Gianni sia arrivato" è del tutto analogo a "Secondo me Gianni è arrivato).

Quelli elencati sopra sono solo alcuni degli aspetti da tenere in considerazione quando ci chiediamo se l'italiano sia facile da apprendere; esistono strutture che hanno entrambe queste caratteristiche: l'italiano è una lingua neolatina, mentre il serbo è un idioma slavo, il che rende il lessico molto differente tra le due. In compenso, però, in serbo esistono molti latinismi che facilitano il compito degli studenti.

In conclusione, come per l'apprendimento di ogni lingua, anche nello studio dell'italiano ci sono aspetti facili e aspetti difficili: per superare le difficoltà, lo studente ci deve mettere passione e voglia di imparare; il docente, invece, deve capire quando e come presentare i vari aspetti linguistici a seconda del livello di apprendimento, delle necessità del discente e dei suoi obiettivi.

Prima di chiudere, una domanda: per voi quali sono stati gli aspetti dell'italiano più facili e più difficili da imparare?

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"Corsa al Quirinale": due parole sul rapporto tra lingua e cultura

Se siete così masochisti da seguire la politica italiana, saprete che ieri è stato eletto il Presidente della Repubblica; probabilmente avrete anche letto o sentito parlare di "corsa al Quirinale" e di "minacce aventiniane". Quirinale e Aventino sono due dei sette colli su cui è stata fondata Roma: perché vengono usati in questo contesto?

Il Quirinale è il colle su cui si trova la residenza del Presidente della Repubblica; dunque indica - per metonimia - proprio questa carica.

L'Aventino, invece, è il nome di una sala che fa parte del Parlamento, in cui si riunirono per protesta alcuni deputati dell'opposizione durante il regime fascista: le "minacce aventiniane" dei giorni scorsi intendevano proprio evocare una protesta forte per il modo in cui il Capo del Governo, Renzi, stava gestendo le trattative per l'elezione del Presidente.

Per uno straniero che impara l'italiano, alle difficoltà strettamente linguistiche si sommano ovviamente gli ostacoli di carattere culturale. Frequentazione della realtà italiana; un buon insegnante e persone madrelingua che sappiano presentare le forme idiomatiche e legarle al nostro contesto culturale; tanta curiosità: questi sono naturalmente i requisiti per padroneggiare la nostra lingua in modo sicuro e versatile.

Un ulteriore strumento può essere l'utilissimo "Parole per ricordare" di Massimo Castoldi e Ugo Salvi (Zanichelli editore), il cui sottotitolo chiarisce efficacemente l'intento degli autori e l'utilità che questo dizionario può avere per gli stranieri (ma non solo!): "Dizionario della memoria collettiva: usi evocativi, allusivi, metonimici e antonomastici della lingua italiana". Le parole e le espressioni presenti sono dunque legate alla storia e alla quotidianità italiane. Sono quei nomi e quelle frasi in cui ogni italiano si riconosce: tutti sappiamo cos'è successo a Superga, cosa evoca Caporetto, quanti studenti sono stati salvati dai bignami, quale genere di retorica generasse il Processo del lunedì.

Nonostante l'opera cominci a risentire del tempo (si è fermata alla prima edizione del 2003), consiglio il suo acquisto a tutti coloro che vogliano approfondire la propria conoscenza dell'italiano, soprattutto a coloro che hanno terminato Italianistica.

Perché, come sosteneva il maestro Manzi, "Non è mai troppo tardi"!

 

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